ARCHIDIOCESI DI NAPOLI CONGREGAZIONE DELL’IMMACOLATA DEI TURCHINI
il Cristo morto
Icona della Passione

(tavola rotonda)

PROCIDA Venerdì 4 aprile ore 18 - Sabato 5 aprile ore 18

IL CRISTO MORTO

Fin dal primo Settecento la Congregazione dei Turchini possiede una scultura in legno policromo dello scultore napoletano Carmine Lantriceni. Questa sacra immagine viene portata in processione il giorno del Venerdì Santo. La struggente drammaticità di questa scultura è da sempre nell’anima di ogni procidano, di conseguenza è oggetto di culto e di venerazione. L’effetto più immediato che suscita in chi l’ammira per la prima volta è straordinario. Vedere un corpo straziato dal supplizio della Croce, giacente nell’ultimo spasimo di un dolore atroce, non può non suscitare che profonde emozioni e un immediato desiderio che si trasforma in istinto di voler avere un contatto fisico con l’immagine toccando quel corpo martoriato quasi a voler alleviare il dolore. Ma al di là delle emozioni e dei sentimenti, questa stupenda immagine riporta il credente al Vangelo, dove è spiegato perché un Uomo-Dio soffre e muore in croce. È la pazzia di un Dio che per amore e solo per amore, non esita a sacrificare se stesso sulla Croce per poi riaffermare la sua divinità, non da solo ma coinvolgendo l’umanità intera.

IL PRIORE
Cap. Gabriele Scotto di Perta

Venerdì 4 aprile 2014 ore 18
Saluto del Priore Gabriele Scotto di Perta ai convenuti

Primo momento
Il Dott. Elviro Langella interverrà sul tema:

l’ispirazione del Cristo velato di Giuseppe Sanmartino il velo nel simbolismo segreto della Cappella Sansevero

Si è portati a vedere in ogni opera d’arte l’esito della personale ricerca espressiva di un autore, il segno singolare della sua autonoma individualità creatrice. Si tende ad ascrivere poi, quell’opera nel più vasto contesto epocale al fine di poterla catalogare nelle categorie predefinite dallo storico dell’arte: lo stile, le tendenze del gusto, gli influssi riconducibili ad altri autori che s’impongono quali capiscuola o piuttosto, a quelle correnti che direttamente o non, possono aver influenzato la personalità dell’autore.

L’invito del Dott. Gabriele Scotto, priore della Congrega dei Turchini di Procida, a partecipare a questo lodevole evento culturale è stato uno stimolo decisivo ad affacciarmi su un orizzonte più ampio di conoscenza, rispetto al modello figurativo del Cristo morto finora da me studiato nella tradizione della scultura settecentesca. Un’occasione importante per rafforzare in me la ferma convinzione che l’epifania di ogni inedito capolavoro pur recando l’impronta irripetibile del proprio autore, rappresenta però pur sempre, il punto di convergenza della più ampia ricerca a lungo maturata dai molti artisti che lo hanno preceduto. Ecco perché talune opere autenticamente ispirate s’impongono poi, nel panorama di riferimento, come emergenti ed emblematiche, diventando a loro turno, esse stesse paradigmatiche per gli sviluppi futuri della storia dell’arte.

La vera poesia dell’arte riesce alfine ad incarnare un’universalità di valori condivisi che accomuna e contraddistingue le pur diversificate interpretazioni espressive d’ogni spirito creativo nell’alveo della propria personale formazione e sensibilità.

Con particolare riferimento al nostro tema del Cristo morto, sarebbe quanto meno ingenuo supporre che la tradizione dell’arte sacra partenopea si effonda in una eterogenea galassia di autori di talento operanti ognuno nel più geloso individualismo, senza mai relazionarsi ad un confronto coi contemporanei. Potremmo mai fingere di ignorare come dietro la pur geniale ispirazione del Cristo velato di Giuseppe Sanmartino traspaia in tutta evidenza sia il ricordo del Cristo morto del Duomo di Capua scolpito dal suo maestro Matteo Bottiglieri, sia il modello esemplarmente suggerito dal suo predecessore, il Corradini, nel celebre bozzetto di terracotta al Museo San Martino di Napoli? Il bel libro pubblicato dal Prof. Giacomo Retaggio approfondisce opportunamente questi illuminanti passaggi rintracciando a ritroso l’invisibile filo rosso soggiacente la ricerca degli artisti che hanno dato forma alla loro personale visione del tema sacro.

L’autore ci rivela con disarmante evidenza come la capacità di tradurre magistralmente nel marmo il pathos del Cristo velato vada ricondotta inequivocabilmente alle inedite intuizioni plastiche sperimentate dal caposcuola indiscusso del Barocco, Gian Lorenzo Bernini. Sarebbe impensabile accostarsi alla ineffabile quiddità della tensione emozionale che freme nel Cristo velato senza passare per l’estasi della beata Ludovica Albertoni del Bernini.

Se anche fossimo così ciechi da disconoscere la portata culturale dell’eredità che ci viene dai maestri, nondimeno l’invisibile fil rouge non cesserebbe di intessere sotterraneamente le trame della storia dell’arte, ordendo il canovaccio entro il quale la lingua di ogni autore finisce provvidenzialmente col ritrovare l’imprescindibile codice per esprimersi. Con un’eloquente metafora il grande Hernst Gombrich definì questa essenziale verità, il “gioco della culla di spago” ove l’ideale cordicella che i bambini si passavano di mano in mano pizzicandola con sapiente abilità, nella storia dell’arte serve a legare invece, l’infinita galleria di sguardi con cui gli artisti in ogni tempo, si sono affacciati sul mondo.

È sensato supporre che le ininfluenti distanze tra l’isola di Procida e la cappella Sansevero di Napoli finissero per impedire al Sanmartino la visione dello splendido Cristo morto del Lantriceni? Chi può crederlo? Il punto semmai, che s’impone oggi ad uno studio attento, consiste nel risalire alla comune fonte originaria dell’ispirazione universale dell’arte. Ove si rivela del tutto sterile e artificiosa ogni presunta conflittualità o discontinuità tra il sentimento laico e l’insita religiosità dell’arte, tra il messaggio sociale e l’intima poetica di ogni autore, tra il genio individuale e l’anima cosmica della vera poesia.

Tornano in mente le parole di Boris Pasternak sulla forza dell’ispirazione e del sentimento universale che arriva prepotentemente a primeggiare sull’individualità creativa dell’artista:

In quel momento Jurij Andreévič sentiva che non era lui a compiere il lavoro essenziale, ma qualcosa più grande di lui, al di sopra di lui lo guidava … … si liberava così dei ripentimenti; la scontentezza di sé e la sensazione della propria nullità, per un momento lo abbandonavano.

Solo a queste condizioni sarà dato riappropriarci del sentimento che animò un tempo i nostri artisti e testimoniare l’eterna attualità della vera arte, la sua inalterabile contemporaneità. Sempre a patto di riuscire ad essere all’altezza di riconciliare lo spirito dei nostri tempi così contraddittori, con l’essenza spirituale dell’arte e rivendicare senza falsa retorica, l’immortalità dei nostri artisti e dell’unica “grande bellezza” di cui andare orgogliosi riconoscendoci responsabilmente depositari privilegiati di tanta inestimabile eredità.

Insegna Cesare Brandi che l’arte è pura astanza. Proprio per questa speciale natura subliminale possiamo accostarci ad essa solo avendo cura di riviverne ogni volta nella nostra intimità, l’emozione originaria. è affinando la propria sensibilità estetica che la cultura di una civiltà rigenera se stessa, porgendo orecchio alla memoria parlante del nostro grande patrimonio artistico. Né esiste altra via per farci consapevolmente carico di trasmetterne il messaggio di generazione in generazione, per conservarlo vivo senza rischiare di imbalsamarlo in una esteriore icona consumistica asservita esclusivamente al marketing turistico, svuotata della propria originaria anima creativa.

Elviro Langella

il Cristo MortoIl Cristo velato della Cappella Sansevero

UN VELO DI LUCE …
UN GUSCIO PIENO DI VITA …
Elviro Langella
Redattore di Opus minimum

Esoterismo Grafico

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