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“Il corpo mistico” di Rosanna

“Il corpo mistico” di Rosanna - Spaccanapoli

L'alchimia della luce
Scarabattola

Il primo istruttivo apprendistato all’alchimia della luce coincideva con la scoperta di un antico laboratorio all’ultimo piano di un palazzo storico che fiancheggia l’Accademia di Belle Arti a Napoli.
Un’insospettabile serra ricavata sull’attico raccoglieva una sterminata raccolta di piante grasse, prolungandosi dentro una veranda che, con ogni probabilità aveva funzionato anni addietro come sala di posa. Umberto, il “Mago dell’obiettivo” – come recitava un’insegna dismessa nel polveroso bric à brac dello studio – viveva lì, indisturbato signore del piccolo eden esotico affacciato su una tra i più invidiabili panorami della città. Ogni capodanno poteva, così, rinnovare lo spettacolo magico dei fuochi che da Pusilleco, ′a Marina, Capodimonte, Frìsio, Margellina, illuminano tutta ′a custiera amalfitana. Sembrava impossibile ritagliare la figura senza tempo di Umberto dal mondo delle fantasmagorie della sua lanterna magica, dalle magiche formule della gelatina d’argento e dalla cornice di quella “luggetèlla” che riluceva di felicità e armonia. Custode di indelebili memorie del bambino sempre pronto a stupirsi di fronte ai pur dilettanteschi esperimenti di fototipia del papà, Maggiore del R. Esercito, in pensione, di fronte al mistero delle prime, timide radio a galena. Assalito da ricorrente malinconia per quella guerra mai lasciata alle spalle.
L’imperscrutabile riservatezza di Umberto aveva qualcosa della personalità alterna di Strindberg, sempre sospesa tra le contingenze del quotidiano e l’ininterrotto dialogo con le sue Muse: l’Arte, l’Alchimia, ravvivando sull’improvvisato fornello a gas, nell’alloggio di fortuna di una pensioncina nel cuore di Parigi, il fuoco rinascente di mirabolanti rivelazioni filosofali.
Rosanna sapeva della meravigliosa collezione fotografica con le Virtù di marmo della Cappella Sansevero. Ancor polverose ma fortunatamente indenni dal disastro bellico, le lastre scattate con la gloriosa Linhof esercitavano un fascino antiquariale irresistibile. Ma quale inaspettata meraviglia l’essere addirittura iniziata al rituale magico della camera oscura per la stampa delle copie. Come avrebbe potuto Rosanna poi, riferire la sua eccitazione a chicchessia. Potrebbe mai la generazione del digitale, avvezza a navigare in ben altre smaliziate stregonerie multimediali, cogliere lo spirito naif della fiaba di Strindberg che racconta del “fotografo-filosofo”, che si compiace di aver inventato il suo magico mondo surreale, alla rovescia: dove “le ombre diventano chiarori, il blu bianco e i pomi d’argento opachi come il ferro.
Come descrivere quel miraggio fotografico che prendeva forma nella rossa oscurità, sulla lastra imperlata dai rivoli del bagno chimico. “ Metol parti 2, Solfito anidro 25, Idrochinone 6, Bromuro di Potassio 0,5…” Così, mentre il suo alchimista si attardava ancora a recitare le sue incomprensibili formule, la ragazza scopriva incredula, i riflessi non più marmorei del volto del Cristo velato animarsi, affiorando nei sali di bromuro gocciolanti. Il panneggio del velo dileguava come lo zampillo di una fontana che i rigori dell’inverno avevano prima ghiacciato.
Come poteva accadere una tale prodigiosa metamorfosi dell’immagine?
E se, invece, i lampi di magnesio del vecchio fotografo avessero fortuitamente sortito una qualche strana polarizzazione non diversa dal riverbero dei due lumi posti a capo e ai piedi di Gesù dal principe-alchimista che irradiavano un’arcana, inesauribile luce? Forse, senza nulla togliere al virtuoso scalpello del Sanmartino, l’equorea trasparenza del velo confermava una volta in più, che quella materia così duttile e incorporea, non era affatto marmo ma piuttosto, un vero compost di invenzione del Sansevero.

Spaccanapoli

Rosanna si aggirava nel dedalo di stradine di Spaccanapoli, confondendosi con la sua favola antica.
Celata nell’impenetrabile silenzio della clausura francescana, tutta un’insospettata pinacoteca sommersa, inondata dalle più luminose sete tempestate di fiori che sia dato ammirare nei quadri di Massimo Stanzione, le fu dischiusa in via eccezionale, dal buon Padre Macario.
Laddove il labirinto si infittiva allo sguardo, di schianto si trovava a varcare uno degli innumerevoli accessi al magico specchio di Alice. Ed ecco, non annunciato, andava in scena il più grande spettacolo d’arte sacra del ‘600 che mai avrebbe potuto immaginare: le Sette Opere di misericordia. Un bambino, il bambino nelle braccia della Vergine, appariva egli stesso spettatore incuriosito del dramma che si animava dentro il teatro caravaggesco. Eppure, Rosanna avrebbe giurato di aver intravisto quel musetto affacciato dal siparietto di nuvole dipinte nella pala d’altare, giusto qualche attimo prima, proprio in quei vicoli, confuso in mezzo alla gente. Verrebbe da dire uno scugnizzo, tanto forte è la sensazione d’essere sbalzati fuori dal tempo che si respira in questi imprevedibili vicoli.

L’”ospedale della bambola”, le bancarelle presepiali di San Gregorio Armeno partecipavano anch’esse di quell’atmosfera sospesa tra iconologia sacra e la ritualità sublime delle mani dell’artigiano. Tra veli e vuote maschere che nascondono come matrioske altre maschere, un’incredibile riproduzione del Cristo del Sanmartino in argento, conviveva con tutta la compiaciuta, sfrenata imagerie popolare raccontata dai fratelli Scuotto. Il demone dissimulato tra cori angelici di conturbante sensualità ammicca da dietro la Sacra Famiglia; ibridi di straniante bellezza androgina dividono il palcoscenico del mondo con la più variegata umanità accanto al femmeniello e ai più singolari attori della grande parodia favolistica ove c’è posto per tutti; finanche per creature grottesche, per la natura deforme e piagata dalla sofferenza; perfino per i fantasmi evocati dai sogni più deliranti. Dentro la magica Scarabattola, l’intero corteo della tradizione favolistica popolare si confonde al paesaggio dell’originario presepio settecentesco per mettere in scena il più grande sogno visionario esoterico che sia dato immaginare.

Ritroviamo Rosanna a curiosare tra gli oggetti intriganti di una vetrina: tarocchi, pubblicazioni che trattano astruse materie occultistiche, i più insoliti amuleti. Ora è intenta a leggere le pagine di un vecchio libro sulla Cappella Sansevero. Un sito magico nel senso letterale ubicato giusto qualche vicolo più in là. Girato l’angolo alle spalle dell’obelisco della piazza San Domenico Maggiore, si sarebbe imbattuta in quella “dimora” nella quale tutti i sognatori come lei amano riconoscervi una delle più preziose dell’alchimia. Di fatto, la settecentesca ricchissima cappella è testimonianza certa della singolare ricerca esoterica nella quale il principe Raimondo di Sangro prodigò le energie di una vita. A suo modo, la sua autentica pietra filosofale tuttora risplendente sotto gli occhi di tutti.

Il linguaggio dei piedi

Per una congiuntura assolutamente inspiegabile, Rosanna ritrovò, in una didascalia con cui l’autore del libro commentava una tra le innumerevoli sculture commemorative della Cappella, una pista insperata che riconduceva curiosamente ai Misteri dionisiaci di cui era stata, in quei giorni, spettatrice nell’antica Pompei. Un sito d’arte ancora impregnato dei sogni di Norbert Harnold, perduto in “uno strano stato oniroide che stava a mezzo tra la piena coscienza e l’incoscienza totale”. Alla deriva delle sue fantasie archeologiche non è qui che incontra Zoe Bertgang1? Scoprendo d’essere destinato ad assistere al miracolo dell’amore: la sua luminosa Gradiva. Pompei, connubio ideale di memorie della classicità e invito al viaggio senza tempo tra fantasie antiquariali: uno sfondo che sarebbe risultato certamente gradito al Colonna per celebrare l’idillio di Polifilo con la sua riconquistata Polia.

La statua della cappella napoletana raffigurava l’allegoria del Decoro, che ad un’occhiata superficiale, non aveva niente di enigmatico. Nient’altro che un giovane dai tratti alquanto effeminati. Era in scena proprio in quei giorni, al Teatro di San Carlo, Nijinsky Memoria di giovinezza… La locandina che non sfuggì ad Rosanna, in uno stile anacronistico alquanto oleografico, datato, riproduceva a colori il bozzetto di Leon Bakst per Après-Midi d’un Faune. La segnò a lungo la suggestione dell’appello accorato di Vaslav, astro intramontabile dei Balletti russi, dilaniato dal demone della malattia mentale che pur l’avrebbe tragicamente condotto al precoce tramonto. Prima e durante la danza, uno dei due attori a cui era affidata l’interpretazione del grande ballerino nelle sue molteplici anime, ripeteva concitatamente prima in russo, poi in italiano: “Occhi! Occhi! Occhi che guardano e non mi riconoscono! Io non sono Nijinsky. Io sono il sentimento. Sono la carne. Io sono Dio in un corpo. Occhi! Occhi! Occhi!…”. Espressioni martellanti, ossessive, di sicuro tratte dal suo disperato diario.

Quanto meno inaspettato giunse alla ragazza l’accostamento suggerito dalla nota del libro, tra il fauno danzante e il marmo della settecentesca cappella napoletana.

IL DECORO
I caratteri di androginia, trovano ispirazione scultorea al modello della vestale barberiniana …Tra gli accessori del vestiario di Dioniso, così come lo raffigurano le pitture parietali romane della Villa dei Misteri, ricorre il dettaglio dell’unico sandalo calzato dal dio.

Le pagine del libro tentavano in maniera non sempre convincente, di gettare luce sull’intuizione inattesa di un sottile trait d’union tra i due smemorati cenerentoli.

…Io, tra i tanti, credo allo stesso modo, di aver ceduto alla seduzione di una inspiegabile coincidenza, in mezzo a mille altre ricorrenti in quelle visite alla nostra dimora filosofale. Anzi credo, che devo ad una fortuita, eppur determinante coincidenza, il mio definitivo innamoramento col Principe di Sansevero.
Per caso sfogliavo i bozzetti di Leon Bakst che servirono alla scenografia dei Balletti Russi. Non sapevo ancora nulla sull’ Après-Midi d’un Faune di Mallarmè e sulla sua trasposizione teatrale per la musica di Debussy. Quand’ecco, uno dei costumi, pensato giusto per il fauno affidato all’interpretazione e alla coreografia di Vaslav Nijinsky.
Con la grazia tipica delle linee avvolgenti dello stile déco, il mitico personagio di Bakst esibiva le sue gambe pezzate, semiumane e curiosamente, quasi per un capriccio decorativo, un unico sandalo al piede sinistro…
… Sarebbe bello che gli iconologi facessero luce su questo angolino oscuro della Cappella.

Solo più tardi, una mail del Prof. Labarbera di “Anatomia artistica” avrebbe annunciato sul monitor di Rosanna, che il mistero del nostro Cenerentolo poteva, a dire del mittente, ritenersi archiviato. Il messaggio faceva riferimento a proposito, ad un libro illuminante di Carlo Ginzburg, Storia notturna. Le immagini allegate rappresentano l’una, una statua di un giovane iniziato ai Misteri di Eleusi del I sec. esposta al Palazzo dei Conservatori di Roma. L’altra, un particolare degli affreschi della Villa dei Misteri a Pompei, del I sec. a. C., con una scena d’iniziazione: Dioniso riverso.

Un articolo apparso sul Mattino così recensiva il dettaglio intrigante svelato dall’eccentrico autore della Favola alchemica:

“Se nell'edificio entrasse un greco antico resterebbe turbato scorgendo, a sinistra, il giovane cinto da pelle di leone che rappresenta il Decoro. La statua ha struttura e linee classiche, quasi pervase da una serenità apollinea; il "profano" di oggi potrebbe cogliervi l'invito ad un tranquillo e austero itinerario contemplativo tra le figure schierate più innanzi. Il nostro greco, però, noterebbe che al forte giovane manca un calzare, lo avrà smarrito: pauroso inizio di un viaggio recente, e forse non concluso in territori d'oltretomba inaccessibili ai comuni viventi. Nell'antichità vennero immaginiati come monosandalos Giasone e Dioniso, entrambi protagonisti di miti tenebrosi, tragici. Il particolare è rilevato e commentato dal’autore della Favola alchemica di Raimondo di Sangro e può essere il primo inquietante segnale d'un percorso lungo il quale ai simboli cristiani s'intrecciano fittamente quelli più segreti, iniziatici…”

Le fortuite coincidenze che accompagnavano inspiegabilmente la lettura del libro, determinarono l’atmosfera magica più consone all’idillio di Rosanna col Principe di Sansevero.
Sapeva che quella del monosandalos per quanto suggestiva, si rivelava in fondo, un’intuizione fantasiosa. L’abilità nel mettere in luce il curioso indizio sfuggito sino allora all’indagine, faceva velo ad una più schiacciante evidenza. A onor del vero, la statua calzava a destra un coturno e a sinistra uno zoccolo. Ma a Rosanna queste apparivano solo digressioni pedanti che non portavano da nessuna parte. Per giunta, osservazioni così speciose confondevano la ghiotta pista tracciata dallo scrittore che sapeva saperla lunga sulle vere intenzioni del principe.
Arrivò a sospettare che l’autore si servisse premeditatamente di sotterranei escamotage per esercitare un’arcana seduzione sul lettore, dal momento che la sua Favola alchemica trovava già per suo conto, terreno fertile nella fantasia dei napoletani. Sbaglia chi crede che la sindrome del Sansevero sia stata sradicata del tutto nella Napoli del terzo millennio. Per ragioni che in tutta onestà, sfuggivano anche al nostro autore, sopravvivono i fantasmi dell’imagerie popolare, i mille aneddoti e altrettanti incredibili casi di immedesimazione medianica col principe. E c’è poco da scherzare, si tratta di convinte reincarnazioni, confessate con consapevole, disarmante, candore, finanche da accreditati personaggi, recalcitranti a mettere in discussione l’attendibilità di fenomeni paranormali, a onor del vero, inaccettabili dal comune senso logico. Persone in vista al di sopra di ogni sospetto, disposti a difendere a spada tratta la loro buona fede dagli scettici incalliti della nostra società materialista. A ben riflettere, perché mai dovremmo esorcizzare dalla Napoli del nostro tempo uno spirito tanto amabile come quello del principe, da suonare anche così affettuoso nell’espressione popolare: o’ Prencepe?

Agli occhi di Rosanna, sprovvista del tutto delle chiavi interpretative per penetrare gli arcani di quel libro e meno che mai, per confutarne l’infondatezza, affioravano stimoli sempre nuovi alle rocambolesche acrobazie cui era avvezza la sua fantasia. Affascinata dall’Opera meravigliosa del principe coi suoi astrusi rebus e enigmi disseminati tra putti trasudanti, veli marmorizzati e vere vene metallizzate, poteva ben comprendere l’ammirazione provata da André Breton per il libro delle folli immagini geroglifiche di Nicolas Flamel.

“Non vi sembrano quadri surrealisti?” avrebbe gridato di fronte al pazzo teatro degli alchimisti in cui con rara disinvoltura, si alternavano scene di bimbi innocenti scannati e di terribili aquile che ghermiscono strani esseri androgeni, con due teste e tre gambe, risorti da lugubri montagne di corvi morti, mentre stringono il gramo bottino di caccia d’una lepre e di un pipistrello.

NOTE
  1. Zoe, dal greco zoos, significa vita; Bertgang, in tedesco: colei che risplende camminando, come Gradiva. “… sollevando un po’ l’abito con la mano sinistra, Zoe Bertgang, Gradiva rediviva, avvolta dallo sguardo trasognato di lui, attraversò le pietre del passaggio fino all’altro lato della strada, sotto la luce del sole, col suo caratteristico passo agile e tranquillo.”
    (Wilhelm Jensen, Gradiva, fantasia pompeiana)
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