“Il corpo mistico” di Rosanna

Nella Cappella Sansevero

Incisione Cappella

Il primo atto che andava in scena nel gran teatro esoterico di Raimondo di Sangro, ci avrebbe colto di sorpresa alle spalle, una volta infilati dentro la sua mirabolante macchina scenica.
Posto in alto su una piattabanda, il monumento che sormontava il portale commemorava l’impresa militare di Cecco de Sangro.
Il leggendario episodio poteva portare alla mente l’escamotage del cavallo di Troia. Una folgorazione dell’ingegno mista all’astuzia e all’eroico ardimento, non certo un subdolo inganno, guadagnò la vittoria al valoroso antenato del principe, allora soldato agli ordini di Filippo II. La scena ritraeva proprio il clou della sortita di Cecco con la spada in pugno, da quella bara dentro la quale si era finto morto.
Rosanna: Quale bara?

Morena: Anche la guida parla della cassa di noce…
Rosanna: Sul principe di Sansevero si dice di tutto. Stregone, castrafanciulli… Ammazzò sette cardinali e con le loro ossa costruì sette seggiole, mentre la pelle opportunamente conciata, ricoprì i sedili1. Lo sapevi?
Morena: Io non faccio il pieno di tutte le perle di saggezza che ti rifilano su internet! Storia o leggenda, Cecco fu messo nella bara perché creduto morto a causa delle gravi ferite. Poi, una volta dentro la rocca di Amiens ha sguainato la spada gettando il nemico nel panico. Ecco l’incredibile colpo di scena!
Rosanna: Era una cassa di noci con dentro le armi. Altro che redivivo!
Ti sarai fatta suggestionare dalla tomba spalancata davanti a noi, lì in fondo sotto la mensola dell’altare. Ma proprio lassù, mi spieghi cosa ci starebbe a fare una bara?
Morena: A rappresentare il sepolcro dell’antenato. Dov’è la meraviglia? A ben riflettere, sarebbe tra le poche cose ad avere un senso logico qui dentro, dopotutto.
Rosanna: Brava! Il marchese de Sade si esprimeva pressappoco come te!
Morena: Cosa c’entra il marchese..?
Rosanna: Ho letto delle bellissime riflessioni di una studiosa napoletana2
Cecco è il vero custode del silenzio dentro il tempio del principe. Un guardiano. Ecco, svelato l’arcano. Ora capisci cosa diavolo ci fa appollaiato là sopra?
È il fratello “copritore” che veglia all’ingresso come una vedetta, sulla sua società segreta preservandola da occhi estranei.
Ancora una volta è l’intuito femminile a mettere ordine dentro il gran teatro barocco che frulla dentro la testa degli uomini!

Credo che la nostra studiosa sia l’unica ad avere davvero amato Raimondo, in mezzo ai tanti collezionisti di astrusità che sono passati qui dentro. Non per niente porta il mio nome. Tutti fingono ammirato stupore e fanno sfoggio di erudizione, quasi fossero i depositari della grande eredità di Raimondo, scivolando invece, con candida superficialità, sui veli impenetrabili alla loro miopia. C’è da chiedersi chi fu il genio che trasportò gli scheletri, una volta discretamente custoditi nel palazzo, giù nella cripta. È da non credere, poi, come neanche i due poveri cadaveri “metallizzati” siano stati risparmiati ai sacrileghi saccheggi qui dentro. C’è chi ricorda i resti ora scomparsi, del bambino che la donna portava nell’utero. I mostri del Sansevero sono qui in bella mostra in barba alle volontà del principe. Una bella attrazione escogitata ad arte dagli imbonitori del nostro tempo. Hai presente il gran carrozzone delle meraviglie del dottor Spitzner che mandava in delirio Delvaux? Fa riflettere come anche la geniale fantasia di un artista possa conservare tracce indelebili di immagini che hanno traumatizzato la sua infanzia eppure così inoffensive al confronto con gli orridi videogame e il continuo stupro dei media sui nostri pur scaltriti bambini. Ci sono immagini che hanno per ragioni inspiegabili, un potere straniante finanche sulla mente di uomini di indubitabili, mature capacità critiche, su fior fiore dell’elite di intellettuali e noti statisti. Hai presente l’isola dei morti di Böcklin…? Comunque, in un mondo di ottuso individualismo credi che qualcuno arrivi anche lontanamente ad immaginare il sogno che Raimondo coltivava in cima ai suoi ideali sul futuro dell’uomo? Il suo progetto era quello di contribuire alla vera grande opera che nessuna Accademia e nessuna Università, né tutte le società europee particolari avrebbero mai potuto da sole, abbracciare nella sua immensità, se non con un impegno congiunto. Questi valori già fraintesi dalla sua società contemporanea che lo condannò all’abiura, ancor meno attecchiscono oggi sul vasto pubblico, ammesso che abbia sufficiente sensibilità e cultura per comprenderne il significato, e certo non corrispondono affatto alle attese di chi ha pagato il biglietto stamattina per un ben diverso spettacolo. Così, signori, diamo inizio allo show: eccovi servito lo stregone superstar! L’ennesima icona di potere, quello dell’occulto che si fa beffa del destino mortale di tutti.

la favola alchemica

…Da questa insolita prospettiva, ecco affacciarsi dal palcoscenico quella nuda bara orridamente spalancata che e a ragione, crea qualche riserva nel pubblico ignaro, già disorientato com’è di fronte alle storie di redivivi che s’insinuano nella memoria del sito. Eppure, il monumento è tra le cose che soddisfacevano le aspettative del committente, nonostante egli nel suo esigente perfezionismo, esortasse i discendenti (così come recita il testamento) a sostituire ad ogni costo le opere che non riteneva all’altezza dei suoi veri capolavori.
Lo spettatore può essere indotto a giudicare l’opera alquanto dissonante con il decòr generale della Cappella, sempre ammesso che riesca ad esorcizzare dalla sua mente, l’infausta iattura che aleggia intorno al principe-mago e alle sopravvissute superstizioni: i diabolici elisir in grado di metallizzare di schianto il sangue nelle vene pulsanti e di cristallizzare un sottilissimo velo su un corpo umano, così da simulare un’unica perfetta scultura. Di lui la leggenda popolare congetturò perfino, l’esperimento della propria prodigiosa resurrezione, tragicamente abortita solo per inettitudine dei servitori…
… Ecco fare irruzione il nostro cavaliere in arme. Viene alla luce dal suo corpo chimico brandendo la verga d’acciaio, in fede alle prescrizioni inderogabili dei testi di Hermes, dopo essere stato sottratto alle tenebre dalla sfolgorante Aquila (quei testi ce ne illuminano l’etimo: Aigle ragguagliata a αίγλη greca, “splendore, viva chiarezza”).
In quel fascio di folgori scopriamo il baleno dei nobili splendori metallici che essa libererà nel crogiolo.

Perso dietro il volo dell’aquila, il nostro imprendibile commentatore si produce in compiaciuti virtuosismi di erudizione ermetica:

…È lo stesso uccello delle pagine di Filalete, l’artista che scrupolosamente ne studia il volo. Assicura la proficua messe delle ricchezze dispensate dal corno di Amaltea, che trova qui tra le sculture, il suo posto tra le mani della Liberalità. Assieme al gaio sorriso, generosamente elargisce di sua propria mano, l’oro puro, e il simbolico compasso, a significare la misura delle proporzioni degli agenti chimici, gli intervalli e il ciclo dell’Opera. È il premio conferito da una verace, antica Sapienza a riprova che “se si desidera ricchezza essa tutto produce”
(Sap. Cap. VIII v.5)…

Scoraggiati da tante astruse allusioni, dall’irrefrenabile deliquio di quelle pagine criptiche in cui si erano insabbiati, Rosanna e Morena rinunciarono del tutto a capire a chi un tal linguaggio parlava, e chi mai sarebbe stato l’eletto consegnatario degli arcani rivelati. Si ritrovarono intanto, a calcare le tarsie marmoree del pavimento labirintico. Ebbero il lucido presentimento che non sarebbe stata impresa facile tirarsi fuori da quella trappola che l’autore del libro aveva congiurato assieme al principe di Sansevero.

la favola alchemica

Il labirinto del principe di Sansevero

… torniamo a percorrere l’itinerario della Cappella per scoprire, nel complesso e nelle sue singole parti, quelli che Pierre Rosenstiehl ha definito come i tratti caratteristici del labirinto: il richiamo all’esplorazione, il percorso miope, la metis.

L’intera pianta del dedalo posto ai piedi del monumento sepolcrale dedicato a Raimondo di Sangro, nel modesto e ben illuminato vano, risulta costituita dalle geometrie della tarsia marmorea riproducenti caratteristiche croci gammate e strutture cubiche in un complesso incastro giocato nelle tonalità del marmo. In ermetica il simbolo della croce gammata è l’eloquente rappresentazione della “via universale” nascosta nelle cose. Allo stesso modo, il cubo è la cifra stessa geroglifica della “pietra cubica” o “filosofale”.

La tradizione impone che il geroglifico del labirinto sia tracciato in maniera da mostrare all’iniziato sia la strada che necessariamente dovrà percorrere per raggiungere il centro, nel quale si scatena l’aspro duello tra le due nature, sia la strada che dovrà poi, seguire per uscirne. Quest’ultima difficoltà sembra superabile solo mediante l’aiuto di quel filo leggendario, grazie al quale non si sarà costretti a vagare a lungo tra i meandri dell’Opera. Arianna, airagne, il ragno che tesse quel filo per Teseo, rappresenta in questo caso la salvezza e la vittoria per l’artista. Le geometrie labirintiche costituivano assai spesso motivi d’ornamento per il frontespizio dei manoscritti alchimistici nel Medioevo, ed erano comunemente denominate Labirinti di Salomone. Tale rappresentazione del labirinto trovava posto anche sui pavimenti e sulle volte delle grandi cattedrali gotiche, nonché nei castelli medievali e rinascimentali. Ne troviamo un fulgido esempio, nel Castello di Dampierre-sur-Boutonne nella regione francese della Saintonge. Essi erano concepiti secondo le più diverse forme e potevano presentare molteplici difficoltà di interpretazione. “Ma qualunque era la loro forma e la combinazione del loro tracciato, i labirinti rappresentavano dal punto di vista della realizzazione, la Grande Opera”.

L’esplorazione del labirinto spalanca all’uomo il baratro dell’esperienza di un intimo approccio al divino; l’architetto che reca la chiave del dedalo inespugnabile è identificato con Dio stesso. Molti labirinti mostravano almeno tre entrate, delle quali una conduceva direttamente, senza difficoltà di rilievo, alla camera centrale; la seconda, ugualmente orientata al cuore, vi giungeva solo dopo una serie di deviazioni, ritorni e circumvoluzioni; la terza galleria infine, a differenza delle altre dirottava dal centro, finendo in un budello cieco, spesso a pochi passi dall’ingresso.
Queste costruzioni trovavano corrispondenza nella tre vie imboccate dal neofita, che nel linguaggio alchimistico stanno a rappresentare: la via breve facile da percorrere, caratterizzante l’Opera del povero; la via lunga preferita dall’adepto che desiderava pervenire ad una conoscenza completa e disvelatrice dei più profondi misteri dell’arte, l’Opera del ricco; e la via inutile, causa solo di disperazione e di rovina per i viaggiatori presuntuosi, per quanti intraprendono il viaggio azzardato rischiando l’avventura…

… Se nel pavimento di Sansevero non troviamo la rappresentazione convenzionale del soggetto labirintico con le sue vie, quale ci aspetteremmo, è perché, lungi dal proporre stereotipi, esso predilige il tema geroglifico della rete (= enigma, γρίφος), che pur essendo un simbolo comunissimo della cabala ermetica, è nel contesto iconologico della Cappella che ritrova la sua originalità.

Ed eccoci ritrovati senza volerlo, di fronte all’enigma di partenza.
Al demiurgo immerso nell’impenetrabile nimbo del mistero della creazione. Sin dall’inizio del suo viaggio nelle antiche dimore, l’ouverture che Rosanna aveva in mente, per la performance conclusiva in vista della sua tesi all’Accademia – dal titolo alquanto impegnativo se non pretenzioso, Il corpo mistico –, si apriva con una messinscena allusiva al mistero della coniuctio.
Giacché era l’espressione corporea l’oggetto della sua ricerca di “Anatomia artistica”, avrebbe rappresentato in chiave di danza, il mito di Vulcano e delle opposte nature umane eternamente combattute nei loro voraci amplessi e nelle loro inappagabili inquietudini.
Non sarebbe stato difficile ritrovarvi l’ispirazione originaria che risaliva al suo antico amore per Francesco Mazzola. Era il mistero a lungo inseguito nel suo fatale delirio alchimistico. Quello che ossessionava il Parmigianino mentre attendeva all’ultimo capolavoro della Steccata di Parma. Rifletteva emblematicamente l’ultimo naufragio nella sua personale “battaglia d’amore in sogno”, nel miraggio manierista di una bellezza trasfigurante. E di quell’oro filosofale celato dentro i bracieri ardenti delle Vergini che irradiavano una luce accecante.
Era quanto meno singolare ritrovarsi a rammentare la sua ouverture, ora lì dentro, giusto nella Cappella dell’alchimista, di fronte a Cecilia ed Antonio imbozzolati nella rete e nel velo. In fondo, non diversamente da Ares e Afrodite che si dibattevano dentro l’altra rete del disegno del Parmigianino. L’amplesso amoroso svelato, come recita il mito, agli occhi di Vulcano, trovava nel cinquecentesco disegno, la sua raffigurazione simbolica in quella tela di “sottili fili di ragno” fedele al verso delle Metamorfosi di Ovidio. Senza altro aggiungere, la favola ispirava con quella eloquente immagine, la metafora alchemica della rete che teneva avvinti i due amanti.
Ma quale inspiegabile motivo aveva spinto Raimondo, l’alchimista, a ricomporre la tragedia di un amore stroncato, in una soluzione scultorea così insolita, irretendo appunto, la memoria delle immagini care di Cecilia e di Antonio?
Un’invenzione tanto originale da prestare il fianco ad interpretazioni ambigue. Al punto da aver sollecitato un grande ricercatore come Elémire Zolla ad osare un ancor più misterioso accostamento tra la metaforica rete di marmo e quella circolatoria delle vene e delle arterie quale è dato vedere nei cadaveri metallizzati della cripta3! Forse legittimata da una sopravvissuta superstizione, tra le tante fiorite intorno al Sansevero che confondono la pratica dell’alchimia e il suo amore per l’arte, equivocandole come maniacali sperimentazioni fini a sé stesse; null’altro che compiaciute contaminazioni tra promiscue, discutibili, forme di conoscenza. Era forse, l’intrico della rete che preservava dal loro effimero destino, i resti corruttibili di quei corpi, in una squallida parvenza di eternità: ultima sarcastica beffa giocata dall’alchimia stessa ai danni di spiriti puri e disinteressati all’altezza di Raimondo di Sangro e del Parmigianino.

Eppure, se i due protagonisti della rappresentazione plastica, legati d’amore nella simbolica trama della rete o del velo che li cattura, ripropongono remotamente, analoghe allusioni alchemiche rappresentate dalla coppia di Ares e Afrodite posseduti dalla passione che li consuma, dove sarà mai dato ritrovare il corrispettivo del terzo attore chiamato ad incarnare il dio Vulcano? Cioè, il demiurgo nell’atto della creazione: Parmigianino-alchimista che attende al magistero dell’Opera? Lì di fronte al miracolo della pietra filosofale che nasce dalla ricomposizione in armonia del combattimento delle opposte nature: l’alchemica coniunctio.
Dovremmo riconoscere il vero deus ex machina nell’amorevole angioletto che sovrasta la coppia dei due genitori del principe, e col lume dell’Intelletto libera provvidenzialmente Antonio dalla rete?
Non serve a far velo, il travestimento del nostro angelico “bambino ermetico”*, per nasconderne la vera identità. È Raimondo stesso, suo figlio.
Non è difficile che da spettatori, arriviamo a scoprirci noi stessi, attori coinvolti nel teatro allegorico del Sansevero: veri protagonisti di un mito.
Dal ruolo di Teseo, l’iniziazione al labirinto in cui ci troviamo a smarrire i nostri passi, ci elegge ora, al rango di Arianna.
Siamo noi il ragno che tesse la rete … di sguardi, facendo e disfacendo all’infinito il velo di apparenze che si fa schermo ai nostri occhi, precludendoci la visione chiara, il significato vero, oltre la metafora e il simbolismo delle mille figure geroglifiche. Ecco, per tessere e dipanare l’intrico labirintico, ognuno dovrà fare ricorso al filtro della propria sensibilità interpretativa, così come lo ha ereditato dal proprio background culturale. Accade così che si sovrapponga all’immagine originaria, la nostra più personale, intima percezione, in un gioco di reciproci rispecchiamenti.
Nel Cristo velato del Sammartino allora, è fatale che giungano a fondersi insieme le due visioni dell’autore e del fruitore, coniugando dai rispettivi orizzonti che il tempo divide, le prospettive, gli sguardi, le differenti culture epocali. Un velo su un altro velo. Ogni visitatore non potendo a ragione, non innamorarsi di questo marmo, finisce per donare il proprio velo.
In fondo, a nessuno è dato discernere nel misterioso velo che l’arte stende sulle sue opere, il dritto e il rovescio della trama. Il significato privato dell’artista – o dei suoi autori, lo scultore e il principe che operarono d’intesa – l’intenzionalità del suo messaggio e quello che di fatto il pubblico “vede” dal suo variegato orizzonte, e dalla sempre mutevole distanza storica.
Come il “nastro di Moebius” mosso magicamente dagli illusionismi ottici del disegno di M. Cornelius Escher, il “velo” si riavvolge su sé stesso invitando l’occhio a percorrere l’apparente infinitezza del suo scorrere in due separate dimensioni: l’interno e l’esterno che invece coincidono del tutto. Eppure, senza accorgerci, ad ogni svolta, guadando l’ansa nel suo cammino, lo sguardo si trova a ricalcare l’impronta di un suo passaggio anteriore. Nelle epifanie dell’arte, il ricordo di precedenti visioni interiori, tende a confondere l’esperienza del disvelamento, della scoperta, con quella della ri-scoperta di più intime, riaffioranti, memorie ancestrali.
L’universo dell’arte ha il fascino magnetico di quelle fantasie labirintiche sortite dal gioco di specchi del caleidoscopio: è il luogo del doppio, di inestricabili simmetrie, di spiazzanti calembour magrittiani. Il luogo dei più singolari incontri inattesi e al contempo déjà vu. Memorie ripescate magari, in una qualche esotica isola visitata in sogno. Il domicilio d’elezione dell’archetipo, della memoria di ogni memoria.

E se, invece, il regista della Grande Opera, il fantasma del principe, ancora vagasse tra quei marmi?!

NOTE
  1. Benedetto Croce, Storie e leggende popolari
  2. Si riferisce a Rosanna Cioffi, professore ordinario di metodologia della ricerca storico-artistica presso il Corso di laurea in Scienze dei Beni culturali e presso il Corso di laurea specialistica in Storia dell’Arte della Facoltà di Lettere della Seconda Università di Napoli dove ha ricoperto la carica di Preside fino al luglio 2000.
  3. E. Zolla, Le meraviglie della natura. Introduzione all’alchimia

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