“Il corpo mistico” di Rosanna

l’ OPERA al BIANCO del PRINCIPE di SANSEVERO

Pudicizia (dettaglio)

Le riflessioni maturate nella visita alla Cappella napoletana portarono Rosanna ad immaginare una performance di danza a presentazione della sua tesi all’Accademia di Belle Arti a Catania.
La Cappella col suo pavimento labirintico, si rivelava lo spazio ideale, sebbene oggi molto ridimensionato, ristretto al vestibolo che introduceva alla Fenice. Certo, come appariva in alcune incisioni epocali, esso offriva originariamente uno spettacolo ben più coinvolgente, ricoprendo l’intero pavimento della Cappella. La via dell’illuminazione annunciata dal movimento del gruppo scultoreo del Disinganno e della Pudicizia velata, nelle antiche pregevoli riproduzioni, suggeriva soluzioni coreografiche ancor più efficaci. D’altro canto, l’attuale collocazione del Cristo del Sanmartino al centro della sala, di fatto posteriore ed estranea al progetto del principe, vanificava agli occhi di Rosanna, qualsiasi continuità scenica che le figure, entrambe velate, avrebbero potuto suggerire alla fantasia di Rosanna. Era impossibile vederle l’una il pendant dell’altra.
D’altro canto, l’attuale collocazione del Cristo del Sanmartino al centro della sala, di fatto posteriore ed estranea al progetto del principe, vanificava agli occhi di Rosanna, qualsiasi continuità scenica che le figure, entrambe velate, avrebbero potuto suggerire alla fantasia di Rosanna. Era impossibile vederle l’una il pendant dell’altra.

Questa impressione si coglie invece, nelle fotografie d’archivio. La disposizione provvisoria del Cristo ai piedi della Pudicizia sebbene sia una palese forzatura del pensiero del Sansevero, avrebbe potuto nelle intenzioni della ragazza, rendere visivamente il significativo raccordo tra i velati. Quel sotterraneo fil rouge esaltato ancor più dalla scena del Noli me tangere del Corradini, col Cristo risorto, raggiante agli occhi della Maddalena, scolpita nel basamento del mausoleo della madre.

L’intero sepolcro di Cecilia in cui si incastonava l’altorilievo, prendeva a franare, frantumandosi assieme alla grande lapide commemorativa alla quale la donna appoggiava il braccio. La vita erompeva eloquentemente dal sepolcro, con la forza dirompente dei rami e delle radici di una quercia prodigiosamente germogliata. Con ogni probabilità, quel tronco proteso, reciso e rifiorito, – nel quale qualche visionario ammiratore del Sansevero ha perfino contato gli anelli, tanti quanti gli anni della madre spentasi giovanissima – sarebbe apparso, nella fantasia di Rosanna, il trait d’union tra la madre velata e il Cristo, qualora i due monumenti fossero rimasti accostati come di fatto apparivano nelle vecchie fotografie. Ancor più antiche di quelle donatele da Umberto*, il suo amabile mago dell’obiettivo che con i suoi incalcolabili anni già copriva l’arco di diverse generazioni.

Albrto Vita

Il libro raccolto da Rosanna, che a suo modo, raccontava la “favola alchemica” del principe, non mancava di sottolineare questa stretta corrispondenza: il Cristo velato sarebbe stato generato dalla stessa idea ispiratrice della Pudicizia. Anzi, ancor più a monte, nel piano iconologico che glorificava il virtuoso albero genealogico familiare, la consonanza della cifra stilistica del velo ribadiva esemplarmente l’aspirazione morale a volgere la propria vita all’insegna dell’Imitatio Christi, questa volta non più riferita al suo segreto significato iniziatico che assume in seno al rito massonico oppure nel linguaggio alchimico.
In tale intento commemorativo, Raimondo avrebbe assegnato un ruolo di primo piano alla madre e al padre, al cui fianco quella figura angelicata che spioveva dall’alto sul Disinganno, avrebbe inteso rappresentare sé stesso. Sì, proprio lui, discendente da quell’unione avversata dal fato, Raimondo di Sangro, erede dei nobili sentimenti ancestrali, aveva maturato il profondo desiderio di ricomporre il sogno d’amore di Antonio e Cecilia. Con la delicatezza delle ali dell’amorino sceso in soccorso del padre impigliato nella rete dei suoi errori.

la favola alchemica

Chissà a quanti visitatori verrà in mente che intenzionalmente o no, il Disinganno contenga un rebus, proprio riferito all’angelo con la fiammella sul capo, che anche in virtù del suo lume, sottrae il mondo al velo delle “tenebre e della lunga notte” che lo impediva. RAI-MONDO. Quasi un neologismo proto-dadaista; la firma delle menti più surreali, alchimisti ed artisti 1, più che un enigma cervellotico. Una “condensazione onirica”, un frammento del pensiero di Raimondo di Sangro freudianamente ricomponibile all’interno del mondo dei sogni e delle segrete aspirazioni del principe.

Se un intento autobiografico c’era, se tutto il teatro della Cappella serviva a testimoniare la speciale via del perfezionamento di una personale esperienza spirituale, dove avrebbero dovuto cercare Rosanna e Morena in quell’ininterrotto carosello di fantasmagorie allegoriche?
Nel suo teatro esoterico, l’icona luminosa ed eroica di Gesù, rappresentava l’ideale nel quale il principe desiderava riconoscersi autobiograficamente? Eloquente immagine della coscienziosa imitazione morale del Cristo.
Forse, il Cristo velato commissionato al Sanmartino intendeva incarnare la consacrazione del rito iniziatico di una sua personale, intima, “illuminazione”? Era questo battesimo della luce che intendeva celebrare nel suo tempio massonico? E agli occhi di chi? Quale simbolica morte e rinascita stava a cuore al principe divisare segretamente per mezzo di quelle allegorie legate ora all’esempio del Cristo, ora alla redenzione finale del padre, ora all’innocenza sublime della madre, a turno provati nel crogiolo del loro impietoso destino?

NASCENDO ◊ QUOTIDIE ◊ MORIMUR 2

Così recitavano le opere dell’arte lasciate dalla scienza alchemica per testimoniare la sua prodigiosa epifania. Ma si guardavano bene i maestri a far sfoggio di funeree ammonizioni retoriche. Erano ben lontani dall’intento di tramandarci una visione rassegnata della vita. “Respice finem”, piuttosto. Dell’eterna circolarità della fine che l’uomo sa riscattare dalle “tenebre della lunga notte”, essi parlavano. Dentro l’eterno fluire, la morte germinava ininterrottamente nuova vita. Come avverte il segno – la curiosa interpunzione della piccola losanga – posto a scandire le parole, ribaltandone il senso, proprio per cancellare quel fatalistico tono sentenzioso che rammenta all’uomo la sua effimera origine mortale.

la performance

In vista della tesi, Rosanna aveva finora pensato per la galleria fotografica della sua performance, alla rappresentazione del labirinto non come l’astratta geometria marmorea in bianco e nero del pavimento, bensì ad un grande muro di carne animato dai movimenti contorsionistici di modelli costretti come sardine, dentro le celle di alcuni monitor sospesi, non più grandi di un metro per un metro.
Nell’idea originaria, l’apparizione della solare fanciulla, incarnazione della bellezza dell’arte, agli occhi del suo Icaro danzante, che incarnava Raimondo stesso, sembrava stranamente ricalcare il copione del mito di Semele folgorata dalla visione di Zeus insopportabile per noialtri mortali. Hermes come recitano gli antichi greci, avrebbe salvato Dioniso, il figlio che portava in grembo prima di finire carbonizzata, ricucendolo nella gamba di Zeus, assicurandone così la gestazione nella sua stessa carne.
Era per questo che la danza nel labirinto si interrompeva per far posto a ricorrenti attimi di silenzio di Icaro raccolto nella postura di mestizia e di compianto. Forse non era da escludere, che proprio l’angelo in lacrime della Mestizia del Corradini sulla stele dell’avo del principe, avesse tra le allegorie della Cappella, ispirato Rosanna. Nella sua messinscena, le ali erano talmente grandi e barocche da conferire l’opprimente fisicità del marmo o di autentiche protesi di bronzo. Conferivano il senso di frustrazione e di impotenza dell’artista nella creazione della sua Grande Opera, come traspare ad esempio, nella Melancolia di Dürer. Semplicemente, quelle ali non avrebbero mai potuto volare. Erano la maledizione di tutti quegli spiriti liberi che osano volare oltre gli orizzonti consentiti del loro tempo sfidando il mondo.

Michelangelo sogno

Nello studio di Rosanna avremmo potuto trovare una delle fonti certe della sua ispirazione. C’erano tra i suoi schizzi, riproduzioni di disegni michelangioleschi. Uno straordinario nudo appoggiato ad un mappamondo veniva scosso dal sonno dallo squillo impietoso della tromba di un angelo.
“Ti sei accorto - aveva detto Rosanna durante la loro passeggiata alle Sette opere di Misericordia tra i vicoli di Napoli – quanto l’eccessivo realismo delle ali dei due angeli, facciano apparire ancora più paradossale la loro possibilità di spiccare il volo. Sembrerebbero abbracciati per non cadere nel vuoto. E non vi è dubbio che quella mano, non galleggia affatto nell’aria, ma è effettivamente schiacciata contro un invisibile schermo. È il presagio della caduta certa, verso cui li condannano quelle inservibili ali. Voglio dire che un modello ha posato dal vero per Caravaggio, premendo la mano contro uno sgabello, piuttosto che imitare l’impossibile acrobazia, come un trapezista.”

C’erano due dettagli che riportavano al leitmotiv della performance pensata per il suo Corpo mistico. Quello strano cassone con dentro le maschere accatastate, larve svuotate d’ogni espressione, sopra il quale era sdraiata la figura. Poi, c’era l’angelo. Rosanna: Tutto intorno al colpo di teatro dell’angelo del disinganno piovuto dal cielo come un falco in picchiata, si srotola sul palcoscenico dei sogni, la rappresentazione del peccato nelle sette scene coi vizi capitali, sebbene ne figurino sei. È la sua personale hypnerotomachia, dove si mostra che tutte le cose umane altro non sono che sogno.

In mezzo alle figurine assiepate nel racconto al margine della stampa c’era un’annotazione di Rosanna: “Il sogno della vita”.
Rosanna: Il disegno è il regalo di Michelangelo a Tommaso Cavalieri. C’è a guardar bene, tutta la sua pena d’amore.
Guarda anche l’altro.
Il disegno raffigura Tizio, il Titano della mitologia, che punito per il suo sacrilego amore per Leto, veniva perpetuamente divorato dall’avvoltoio, giacché il suo fegato si riproduceva all’infinito.
Rosanna: Infatti è tutto simbolico. Non vi è traccia di sangue, né la ferita inferta dal becco che pur dovrebbe rodere le sue viscere, i lacci che lo trattengono sono per finta.
Guarda dietro! Per quanto invisibile, appena accennato con un segno magistrale, cosa vediamo?
Morena: ?
Rosanna: È un demone con la testa a becco. Avrebbe fatto impazzire Messerschmidt, lo scultore schizofrenico, ricordi?

Quando l’amica chiese di venire al punto, riuscendole semplicemente impossibile arrampicarsi nelle sue acrobazie, tentò di convincerla con sofisticate digressioni psicologiche, che erano le proprie pulsioni che Michelangelo tendeva a mettere a freno. Il demone, a onor del vero, spuntava dietro il Titano come uno di quegli ibridi di Arciboldo oppure Pier della Vigna nelle illustrazioni dantesche di Dorè, dentro un tronco contorto, affondando le sue radici proprio nel Tartaro dove era stato precipitato ad espiare la sua colpa carnale.
Ciò nonostante, la confessione amorosa dell’artista, pur sublimata nell’arte verso alti sentimenti, era tutta lì a chiare lettere, in quei disegni donati a Tommaso.
Rosanna: Ecco che significa quella caduta!
Morena: Non ti seguo, quale caduta?
Rosanna: Vedi le ali, sono orientate in entrambi i disegni, verso il basso, con una simmetria semplicemente stupenda. Tu però, sei duro! Bisogna imboccartele col cucchiaino le cose. Quanto a Tizio, che è poi, l’uomo del Sogno della vita umana, che è poi, Tommaso il suo amante…
Morena: Vuoi farmi ridere? Sono tue immaginazioni o cosa? Cominciamo, dal titolo che hai affibbiato all’uomo col mappamondo… Rosanna: Io non dato alcun titolo. Si chiama così. Mi dici perché continuo a parlare come una scema se sei a digiuno di tutto?
Bene, c’è una lunghissima storia dietro quel magnifico nudo. È un vero mistero capire come quello stesso disegno sia potuto trasmigrare sotto i travestimenti e le interpretazioni più varie, in tantissime opere di Michelangelo. Come se quella posa del tutto originale, appena ritoccata con qualche piccolo scarto, fosse una cifra iconologica da mantenere esclusiva. E non solo nelle proprie opere, ma addirittura in altri artisti, naturalmente dietro sua concessione. Anche per la sua resurrezione di Lazzaro, Andrea del Sarto, si parte di lì. E tutte, a cominciare dallo splendido nudo donato a Tommaso, sembrano portare al Cristo risorto come lo rappresenta in questo disegno. Basta che lo ruoti così, vedi?
Morena: Questo poi, è un tuo artificio!
Rosanna: Perché, cos’atro credi abbia fatto Caravaggio?
Conosci bene il trittico del Caravaggio in San Luigi dei Francesi, no? Hai presente il carnefice con la spada sguainata che martorizza San Matteo. Ecco, tu prova a ruotarlo ad angolo retto: è l’Adamo della Sistina. E non sarebbe certo, una sorpresa per uno studioso, riconoscere in questo disegno del Cristo risorto, proprio l’Adamo della Cappella Sistina.
Morena: Poniamo che prenda per buono nella più candida buona fede, quanto mi racconti, mi spieghi quale senso avrebbe tutta la tua catena di Sant’Antonio?
Rosanna: È una parola! Temo che questo ci porterebbe troppo lontano. Perciò accontentati per oggi!
Morena: Diciamo piuttosto, che ti sei incartata.
Rosanna: Ti basti sapere che è una lunga storia di… sguardi. Tutta l’arte è una storia di sguardi che s’intersecano e ti portano sempre da qualche altra parte. Quando guardi davanti a te non hai coscienza che stai guardando, con occhi presi in prestito alla cultura e agli uomini, così come essi si rappresentano il mondo, ce ne parlano, lo scrivono sui libri, lo dipingono nei quadri o al cinema. Lo sguardo è un’eredità: un occhio che sta dietro la tua retina e vede indietro nel tempo.
Allora, se Michelangelo si è ispirato a Jacopo della Quercia, questi a sua volta ha guardato ancora più indietro ad una più remota sculturina in avorio che raffigura Adamo mentre dà il nome agli animali. E dai Bizantini siamo ancora sbalzati verso origini sempre più antiche.
Ma ne abbiamo già parlato. È il gioco infinito della culla di spago. Non ci inventiamo niente.
Morena: Va bene, ma stiamo parlando di forme. Potrò bene prendere a modello per il mio disegno una posa ben riuscita, giusto? Cosa c’entra Adamo, Noè, con Tizio, Caio e Sempronio, cosa avrebbe in comune il Cristo risorto col tal Tommaso, come tu dici, per il quale Michelangelo si struggeva d’amore?
Dopo aver a lungo messo alla prova la sua pazienza, Rosanna col suo sconcertante candore, liquida la compagna sempre più scettica.
Rosanna: Cosa avrebbero in comune? Sono tutti l’incarnazione di un’unica persona. Possibile che abbia parlato per niente!

NOTE
  1. la firma alchemica con la conchiglia e il cuore, di Jacques-Coeur o magari, l’autoritratto-rebus di Man Ray.
  2. letteralmente: “nascendo moriamo ogni giorno” ove morimur è una forma arcaica di moriemur

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